Registrata nell’affascinante Cappella del Santo Graal nella Cattedrale-Basilica dell’Assunzione di Maria a Valencia, AURORA è una suite di sette brani per voce, pianoforte, flauto dolce e contrabbasso: comprende quattro versioni di El Rey de Francia, un’antica canzone sefardita, e tre composizioni basate sul suo primo elemento melodico (una quinta giusta), nel tentativo di rappresentare metaforicamente il processo di riconnessione col sé interiore e incoraggiare un ascolto attento e paziente.
La musica è allegata a un testo su René Guénon che tratta di dialogo interreligioso e interculturale, pubblicato in Italia dalla Mimesis Edizioni.
Aurora: musica ed esperienza interculturale
L’atto creativo può opporsi a processi degenerativi e rivelare un terreno fecondo sul quale intraprendere percorsi di trasformazione
L’atto creativo può opporsi a processi degenerativi e rivelare un terreno fecondo sul quale intraprendere percorsi di trasformazione: in questo senso Aurora non è un commento al testo, né una sua spiegazione, né tantomeno uno sfondo musicale per la sua lettura; al contrario è da intendersi come una sua ideale continuazione.
Aurora unisce musicisti di provenienza geografica diversa, ma soprattutto di diversa estrazione culturale, in una prospettiva che vuole essere autenticamente interculturale: non si tratta di mettere insieme, una accanto all’altra, culture diverse, quanto di farle vivere insieme in un costante tentativo di arricchimento reciproco che non diventi, però, necessariamente un indebolimento della propria identità. Si tratta cioè, di mettersi in relazione, cosa ben diversa dalla constatazione del mero essere in relazione, perché implica un desiderio che presto diventa sforzo ma anche gratificazione nell’inevitabile incontro con l’alterità.
E questo vale sia nei rapporti tra persone appartenenti a tradizioni culturali lontane tra loro, sia in quelli che si svolgono entro i limiti di aree culturali più omogenee, ma forse ancor più nei rapporti delle persone con se stesse: una palestra straordinaria dove imparare a riconoscere le frequenti incongruenze, distorsioni e stravolgimenti tra quello che si pensa di essere/diventare e quello che si è/diviene; tra le rigidità dei pre-giudizi e l’infinita e cangiante ricchezza della vita di ciascun essere umano. Insomma dove si può imparare a incontrare l’Altro.
In questo spirito, a titolo di esempio tra i molti possibili, non ho chiesto a Ganavya, le cui radici sono le più distanti dalle mie, di cantare all’indiana un brano legato alle mie radici europee, quanto piuttosto di farlo da indiana; ovvero, di non sovrapporre la sua tradizione musicale alla mia, quanto di partecipare alla mia tradizione musicale nella piena fedeltà alla sua cultura e a se stessa. Ascoltando la sua interpretazione la prima tentazione è stata quella di correggerla, perché troppe erano le differenze con la mia rappresentazione mentale della melodia, plasmata dalle esecuzioni degli specialisti di canto antico. Ma non l’ho fatto e ho tentato di uscire dal recinto delle mie aspettative, per scoprire che non c’era nulla di sbagliato in quello che Ganavya cantava: al contrario, nella sua voce mi attendevano modi nuovi di vivere il tempo, il ritmo, la melodia, l’armonia, il timbro e la respirazione. Né io né Ganavya ci siamo persi, anzi proprio a partire dalla forza delle nostre identità ci siamo potuti incontrare, e abbiamo reso le nostre vite più ricche, intense e significative.
A partire dalla forza delle nostre identità ci siamo potuti incontrare, e abbiamo reso le nostre vite più ricche, intense e significative
El Rey de Francia, che è presente in quattro versioni nel disco allegato, è un brano della tradizione sefardita. Nel 1492 gli Ebrei di Spagna furono espulsi ed emigrarono in diversi paesi europei e nell’Africa settentrionale: il frutto di questa diaspora fu l’emergere di una tradizione che, se da una parte mantenne lo spagnolo come lingua principale per la comunicazione quotidiana e per la letteratura, e preservò usi, costumi e una molteplicità di caratteri culturali di derivazione ispanica, non perdendo dunque la propria identità e origine, dall’altra incorporò gradualmente numerose caratteristiche delle popolazioni presso le quali si sviluppò.
Il testo, riportato qui di seguito con una traduzione, tramandato con tutta probabilità oralmente, suggerisce un lavoro collettivo, e presenta molteplici motivi d’interesse: si vede, ad esempio, che esso integra strutture metriche diverse, esprime una fase della pronuncia dello spagnolo ancora in corso di definizione e incorpora una parola di origine aramaica (aharvar).
Per queste ragioni e per la sua bellezza musicale ho ritenuto che includere El rey de Francia in questo progetto potesse costituire una metafora, e forse anche un’esperienza, di dialogo interculturale.
È molto difficile da contestare l’idea, divenuta quasi un cliché, secondo la quale oggi, nell’era della comunicazione, si stia assistendo a un progressivo impoverimento della comunicazione stessa
Aurora vorrebbe inoltre, sia a livello ancora una volta metaforico sia nelle sue modalità di fruizione, sollecitare l’avvio di un percorso di ricongiungimento col Sé attraverso il recupero di un’attitudine di ascolto attento e paziente.
È molto difficile da contestare l’idea, divenuta quasi un cliché, secondo la quale oggi, nell’era della comunicazione, si stia assistendo a un progressivo impoverimento della comunicazione stessa. E questo è, a mio avviso, ancora più evidente quando si tratta di comunicare con gli strati più profondi della propria o altrui personalità: c’è una diffusa incapacità o indisponibilità, o addirittura paura, a farlo e si preferisce galleggiare in superficie, navigando nelle acque sicure di considerazioni quantitative e oggettive, che non compromettano o espongano, apparentemente, a rischi di sorta. Ed è a mio avviso ancora più grave che a evitare queste dimensioni siano anche scrittori, musicisti, pittori eccetera, cioè coloro che, nella nostra tradizione culturale almeno da un paio di secoli a questa parte, dovrebbero più di altri trovarsi a loro agio in esse.
In ambito musicale, la mia sensazione è che si stia verificando un processo di depauperamento delle categorie estetiche che giunge, sempre più spesso, fino a farle coincidere interamente con le sole tecniche compositive messe in atto di volta in volta nell’ambito di un’opera: quello che conta, insomma, è il materiale, i processi cui lo si sottopone e le forme in cui lo si organizza, in un’ottica di totale secolarizzazione del fatto musicale. Ovvero si riduce la musica al suo corpo, come se, mutatis mutandis, si volesse identificare l’essere umano con le sole sue fattezze esteriori.
É in questo quadro che vanno collocate le quattro ripetizioni di El rey de Francia, nello sforzo di rappresentare un percorso di riavvicinamento a uno stato di maggiore completezza e unità: la prima, interpretata al pianoforte, il più meccanico degli strumenti, esprime la distanza maggiore tra l’essere umano e il suono; la seconda, al contrabbasso, dove le dita del musicista sono a diretto contatto con la corda, mostra la possibilità di un rapporto più stretto con la vibrazione; la terza, al flauto dolce, suggerisce un ulteriore passaggio, perché la respirazione diviene la materia prima, per così dire, che viene poi messa in forma dallo strumento; la quarta, infine, è intonata con la voce, in cui l’unità tra essere umano e suono è armoniosamente compiuta. Ciò si verifica in un contesto che diventa sempre più di relazione: dapprima il pianoforte è solo; quando il contrabbasso prende parola, suonato con la sua cassa armonica a diretto contatto con quella del pianoforte, in cui le corde sono lasciate libere di vibrare, i due strumenti risuonano insieme; insieme, poi, supportano il tema quando viene interpretato al flauto dolce, posizionato all’interno della cassa armonica del pianoforte; in conclusione, tutti e tre gli strumenti collaborano con la voce nella quarta ripetizione in un ideale di ascolto reciproco e feconda cooperazione (è tra l’altro per sottolineare questo ideale con forza che è musicalmente la più elaborata delle quattro).
Un’altra traiettoria importante di questo progetto, cui accennavo sopra con l’espressione “ascolto attento e paziente”, è quella che chiamo il suono dietro. Con alcune importanti eccezioni, per lo più nell’ambito della cosiddetta musica classica contemporanea, definizione a mio parere piuttosto controversa ma che uso per semplicità di esposizione, la nostra civiltà musicale tende a porre l’accento sulla parte attiva del suono, la sua nascita e prima evoluzione, l’attacco. Sono così lasciati fuori sia gli effetti che esso produce intorno a sé – e in questo si può evidenziare una specie di controparte musicale del marcato individualismo così caratteristico delle nostre società – che la sua parte passiva, seconda evoluzione e conclusione, il decadimento. Per coloro che frequentano le sale da concerto valga come esempio l’applauso che parte, troppo spesso, prima della reale conclusione della musica, con sommo fastidio degli interpreti e nonostante i loro segni inequivocabili: mani sospese, respiro trattenuto, occhi chiusi eccetera. In questa attitudine si rende evidente quell’incapacità di ascoltare con attenzione e pazienza, di lasciar essere le cose senza doverle afferrare, soffocandole, ad ogni costo, oltre che la rimozione dell’evento-morte dalle nostre vite.
Aurora, in tutti i sette brani che la compongono, sebbene con modalità diverse, cerca al contrario di porre l’accento su questi aspetti, sia spingendo l’attenzione verso le risonanze dei singoli strumenti e quelle generate dalle interazioni tra loro e con l’ambiente – che insieme è condizionato dal suono e lo condiziona -, sia rispettando la fase conclusiva della vibrazione.
Un’altra traiettoria importante di questo progetto è quella che chiamo il “suono dietro”
Il primo intervallo (distanza/relazione tra due suoni) di El rey de Francia è una quinta giusta e assume, in relazione a quell’esigenza di ricongiungimento col Sé cui accennavo sopra, un rilievo particolare in tutto il progetto nel suo evocare un’esperienza antica e originaria.
Esso regola il rapporto tra i brani realizzando due sguardi: uno, per quinte ascendenti, rivolto al Cielo, nelle quattro versioni di El rey de Francia, l’altro, per quinte discendenti, rivolto alla Terra negli altri tre brani.
In particolare, per Luminescenze, Aurora e Da una grigia nuvolaglia indifferente, la quinta rappresenta anche il centro generatore da cui ogni elemento ha origine, sebbene incrociandosi e compromettendosi, per così dire, con altre esperienze. Tuttavia, non si tratta di un centro statico, perché a esso ho voluto attribuire la possibilità di un percorso di emancipazione, che prende le mosse dalla rigidità delle strutture di Luminescenze – a cui fanno, però, da contraltare le imprevedibili e interagenti relazioni tra le vibrazioni dello strumento – fino alla relativa libertà raggiunta in Da una grigia nuvolaglia indifferente. Qui il pianoforte, nel suo essere macchina, cerca una sua umanità attraverso la ricerca di un canto, mentre il contrabbasso e il flauto dolce in qualche modo diventano le sue risonanze, in un abbraccio luminoso che ancora una volta spinge verso un ideale collaborativo e che anticipa una nuda esposizione di dodici quinte ascendenti a conclusione dell’esperienza.
Il forte desiderio di integrare, a vari livelli, l’imperfezione
Un ultimo aspetto che caratterizza Aurora è il forte desiderio di integrare, a vari livelli, l’imperfezione, intesa come uno dei tratti fondamentali dell’essere umano. La registrazione di per sé ne rappresenta una prima forma perché la natura del progetto imporrebbe un ascolto dal vivo a stretto contatto con l’ambiente e con i musicisti: d’altra parte, si è cercato di restituire il più possibile e con onestà l’esperienza sonora, nel desiderio di poterla condividere con un più ampio numero di persone.
Il non aver scelto uno studio per effettuare la registrazione stessa costituisce un ulteriore elemento di imperfezione, desiderato e cercato in modo da garantire l’assenza di controllo sui singoli interpreti, collocati tutti nella stessa stanza, e la presenza, in termini sonori, dal sistema di ventilazione allo scricchiolio delle panche, del luogo stesso, il cui sfavorevole microclima ha a sua volta influenzato il suono degli strumenti e le esecuzioni. La scrittura compositiva, infine, è caratterizzata da un certo grado d’indeterminazione, e agli interpreti viene costantemente chiesto di reagire rispetto a quello che sentono accadere dentro e fuori di sé, per definire, sul momento, vari aspetti dell’esecuzione. È insomma sull’esperienza nel suo complesso che ho desiderato porre l’accento più che sul solo aspetto musicale, ancora una volta in nome di un’esigenza di maggiore completezza e unità.
L’estetica di questo progetto è piuttosto lontana da ogni formalismo: al contrario è improntata sulla convinzione che la musica possa influenzare l’essere umano
Come è evidente da quanto scritto sopra l’estetica di questo progetto è piuttosto lontana da ogni formalismo: al contrario è improntata sulla convinzione che la musica possa influenzare a molti livelli l’essere umano, spingendolo verso cambiamenti, più o meno radicali, nei rapporti con se stesso, con gli altri e con il mondo, insomma sulla convinzione che la musica abbia molto a che fare con la vita. Si tratta, dunque, di una ricerca, che io per primo ho intrapreso realizzando Aurora, il cui senso spero di aver trasmesso non solo e non tanto con questa presentazione, ma soprattutto attraverso la mia musica. Ed è per questo che la scelta del luogo per la registrazione, realizzata nelle ore notturne quando la coscienza è meno vigile, è ricaduta sulla Cappella del Santo Graal nella cattedrale di Valencia, in Spagna, luogo di altissimo valore simbolico e di straordinaria energia, che ci ha accolto nel suo sacro abbraccio.
El Rey de Francia
El Rey de Francia tres hijas tenía
La una lavrava y la otra cuzía
La mas chica de ellas bastidor hazía
Lavrando, lavrando sueno le caía
Il re di Francia tre figlie aveva
Una ricamava, l’altra cuciva
La più piccola al telaio tesseva
Ricamando, ricamando sonno le veniva
Su madre que la via aharvar la quería
No m’aharvex mi madre ni m’aharvariax
Un sueno me soñaba bien y alegría
Sueno vos soñavax yo vo lo soltaría
Sua madre che la vedeva, voleva picchiarla
Non mi picchiare, madre mia, né mi picchieresti
Facevo un sogno bello e allegro
Il sogno che voi [mi vedevate sognare]
io ve lo racconterei [se non mi percuotete]
M’apari a la puerta
Vide la luna entera
M’apari a la ventana
Vide la estrella Diana
Alla porta
ho visto la luna piena
La stella Diana
ho visto alla finestra
M’apari al pozo
Vide un pilar de oro
Con tres paxaricos
Picando el oro
Al pozzo
ho visto un pilastro d’oro
Con tre uccellini
beccando l’oro
La luna entera
Es la tu suegra
La estrella Diana
Es la tu cuñada
La luna piena
è la tua suocera
La stella Diana
è la tua cognata
Los tres paxaricos
Son tus cuñadicos
Y el pilar de oro
El hijo del rey tu novio
I tre uccellini
sono i tuoi cognati cari
E il pilastro d’oro
è il figlio del re tuo sposo
Crediti
Musica composta da Paolo Cognetti
Voce – Ganavya Doraiswamy
Contrabbasso – Priscilla Vela
Flauto dolce – Beth M. Schofield
Pianoforte – Paolo Cognetti
Registrazione, mix e master: Pablo G. Schuller
Assistente tecnico del suono: Ian Kagey
Distribuzione digitale: Songtradr and Kanjian Music
Fotografia: Lupe Palacios
Copertina: Sara Fortino and Paolo Cognetti
Ringraziamenti speciali:
Cattedrale di Valencia
Clemente Pianos
Berklee College of Music, Valencia Campus
Francesco de Benedictis